La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 29578 del 26 ottobre 2020, ha chiarito alcuni aspetti relativi alla commercializzazione delle mascherine c.d. “del terzo tipo”, affermando che non commette alcun reato il grossista che vende “mascherine di collettività” prive di certificazioni.
La Suprema Corte, accogliendo il ricorso di due imprenditori genovesi contro il sequestro (probatorio e preventivo) di ventiseimila mascherine, ha precisato che soltanto la vendita di mascherine “chirurgiche” o, comunque, di mascherine individuate quali presidi medici o dispositivi di protezione individuale (DPI), qualora sprovviste del marchio CE, può integrare il reato di truffa in commercio (art. 515 c.p.).
E invero, la Cassazione sottolinea che l’errore in cui è incorso il Tribunale di Genova nel confermare i sequestri in parola è stato quello di ritenere che comporti violazione dell’art. 515 c.p. la cessione di qualsivoglia tipologia di mascherina da apporre di fronte al viso al fine di evitare la emissione di particelle di saliva nell’atto del respirare, priva della certificazione di regolarità della normativa anti Covid-19.
La norma in esame, invece, sanziona penalmente la cessione di beni esclusivamente “laddove questi siano diversi, per origine, provenienza, qualità o quantità, rispetto ai beni dichiarati o pattuiti” e, nel caso specifico, non è stata fornita alcuna evidenza che le mascherine fossero state vendute come “presidi medici ai fini della prevenzione del contagio da Covid-19, unica condizione questa che, imponendo le certificazioni a comprova delle qualità rivestite dalle mascherine in questione, sarebbe stata necessaria ed idonea, in assenza delle certificazioni di cui sopra, a far ritenere astrattamente integrato il reato“.
A riprova di ciò, la Suprema Corte ha ritenuto elemento non trascurabile il fatto che le indagini abbiano preso le mosse dalla vendita di dette mascherine in un negozio di ferramenta e non presso una farmacia o comunque un negozio di prodotti sanitari.